Nel Codice Pelavicino, il documento del vescovo-conte di Lunigiana in cui sono raccolti tutti gli atti ed i diritti della Curia, che vanno dal 900 al 1297, nell’atto N° 527 del 15 aprile 1181, indizione 14, alla pagina 585 si legge una testimonianza, fatta sotto giuramento, di quanto veniva fornito presso l’abbazia di San Caprasio di Aulla: “dixit tamen quod panem, vinum, mortoriola, olera, poma sepe vidit dari…“. Nel quaderno del territorio, edito dalla Pubblica Assistenza di Lerici nel 1989, a titolo “Elementi di gastronomia e di merceologia storica di Lunigiana”, viene citata la mortoriola, che si è ritenuto dovesse significare la mortadella, cioè un insaccato di carne di maiale, mantenuto commestibile nel tempo mediante l’uso del mirto. Ciò perché in Lunigiana non erano ancora state importate le spezie orientali, e si usava ancora trattare gli insaccati alla moda dei Romani. Il termine myrtatum sta infatti per insaccati speziati con il mirto e il termine “pesce di murta”, in Sardegna, è il pesce cotto in un brodo di mirto, per renderlo commestibile a lungo (nella lingua sarda il mirto è indicato come múlta). Plinio indica anche l’uso del mirto per fare una salsa con cui rendere prelibata la carne di maiale. Il mirto è infatti una pianta ricca di murtenolo, tannini e resine, ed ha proprietà balsamiche, anti-infammatorie e antisettiche. Il grande cuoco rinascimentale Martino da Como, ritenuto il fondatore della cucina italiana, autore del “Libro de arte coquinaria”, completato autografo nel 1450, presenta una ricetta titolata così: “per fare mortadelle de carne de vitello”, e nel glossario del libro, alla voce mortadelle, si legge: “salumi aromatizzati col mirto”. Ancora nel secolo XV si utilizzava quindi il mirto, ed è quindi credibile che nella cucina dell’abate di San Caprasio, nel 1181, il termine “mortoriola” si riferisca ad insaccati speziati col mirto. Si noti che la cucina di Lunigiana era da considerarsi evoluta, se nello stesso Codice Pelavicino si trova il primo atto relativo ad una brigata di cucina altamente specializzata (1188), mentre le norme per la pesca dello storione nel Magra risalgono al 1201 e la disciplina dell’arte dei macellai a Sarzana è datata 1269. La mortadella medioevale era tutta carne di maiale? A migliorare la conoscenza su questo punto, e a rendere credibile la primogenitura tutta ligure della mortadella, sta la scoperta che anche a Genova esiste una tradizione similare, precisamente nella zona di Sant’Olcese e di Serra Riccò, come si legge a proposito dell’insaccato tradizionale, di cucina povera, chiamato “mostardella”. Secondo quanto riportato nel “Dizionario enogastronomico della Liguria” di Mariarosa Schiaffino, edito dalla Regione Liguria, Assessorato alle Politiche dell’Agricoltura, si tratta di un insaccato fatto con i ritagli di carne suina e bovina scartati durante la lavorazione del salame. Si usa mangiare tagliato a fette e messo dentro il pane caldo, oppure tagliato e fatto alla brace, o anche messo a scottare in padella. Appare interessante notare come attorno a Genova esistano toponimi che richiamano la coltivazione intensiva del mirto, quali Murtei, Murta, Murtà, Morteo, Multedo, Mortola, ma nel “Dizionario Genovese-Italiano e Italiano-Genovese” del Frisoni non si rinviene il termine “mostardella”, che è decisamente il più vicino al termine italiano mortadella, già citato da Martino da Como. Nel Frisoni il mirto è indicato come “mortin”, mentre nel “Vocabolario del dialetto lericino” di Bongiovanni Colombo è indicato come “mortelin”, similmente al “mortela” spezzino e arcolano, come si legge nel “Nuovo dizionario del dialetto spezzino” di Franco Lena e nel “Vocabolario arcolano” di Cavallini & Gianolla. Il permanere della tradizione genovese della mostardella, e della composizione delle sue carni, va a coincidere con la documentazione fornita nel XV secolo e nel contempo spiega come nei monti attorno a Genova non si sia attuato un rimboschimento intenso, dopo il taglio intensivo dei boschi per la costruzione delle navi. Fu per ciò che la Sesta Crociata partì da Porto Venere, che poteva disporre degli alberi della Lunigiana fatti flottare sul Magra. Si deve ritenere che attorno a Genova, vi fosse una fascia intensiva di coltivazione della mortella per uso alimentare? La mancanza di acqua non poteva certamente favorire il trattamento delle pelli a Genova, con il conseguente uso del mirto per l’industria dell’import-export delle pelli, di cui Lerici invece ebbe le franchigie, perché l’acqua qui non mancava mai, neppure dopo tre anni di siccità continua. Questo è provato sia da memorie tramandate da ammiragli inglesi, sia dalla cartografia francese, in cui si legge il termine aiguade presso la spiaggia di Botri, oggi nota come Venere Azzurra. Si noti come Sant’Olcese si trovi in prossimità di Beleno, toponimo celtico legato al dio Belemnos, lo splendente, e come sia così ipotizzabile che I Celti, o meglio i Druidi, maestri di botanica, abbiano iniziato in quel territorio la coltura del mirto, che anche studiosi genovesi definiscono antichissima.