Associazione Ligure per lo Sviluppo degli Studi Archeoastronomici - Circolare n° 19 - Febbraio 2014:
Fatti del mondo dell’archeologia e della paleoastronomia che nessuno vorrebbe mai leggere
Veritas habet morsum
Veritas odium parit
Omnia vincit veritas et iustitia
Tot hostes, honorem multum
Monte d’Accodi (Sardegna). Il menhir spostato per risparmiare
L’eccezionalità del ritrovamento dell’unico “ziqqurat” del Mediterraneo occidentale ha dato luogo a molti problemi. Primo fra tutti quello dell’incredulità. Per vent’anni è rimasto ignoto agli studiosi europei in quanto l’archeologo incaricato di studiarlo, per tema di sbagliare, ne ha tenuta nascosta l’esistenza. Erano i Sardi andati in Mesopotamia, oppure, più credibilmente, i prospettori minerari mesopotamici arrivati in Sardegna a cercare il rame? Avendo paura di decidere, meglio tenere nascosta la scoperta! Allora ciò era possibile perché non era ancora stata approvata la Convenzione di Londra per la protezione del patrimonio archeologico (1969) che all’art. 4 impone agli stati firmatari di “adottare tutte le misure pratiche possibili onde assicurare la più rapida e completa diffusione delle informazioni a mezzo di pubblicazioni scientifiche relative a scavi o scoperte”. Accettato finalmente di procedere agli scavi e alla sistemazione dell’area era emerso un problema circa un menhir abbattuto, a sezione quadra, che in un lato presentava molte strane coppelle. Non sapendo come fare, qualcuno degli archeologi propose di ricorrere alla sapienza antica, sentendo uno scalpellino del posto. La risposta fu immediata. La faccia che portava le coppelle andava orientata verso il vento dominante, che veniva dal mare e che portava la sabbia delle spiagge di Porto Torres. La sabbia, roteando, nei millenni aveva inciso l’arenaria. Risolto questo problema avvenne però un fatto tragico-comico all’italiana. Occorreva risparmiare sul valore di liquidazione dell’esproprio del terreno su cui insisteva lo ziqqurat, di proprietà del Presidente della Repubblica Segni. Lontano decine e decine di metri vi era un altro menhir che doveva essere inserito nell’area archeologica. Perché non avvicinarlo? La conseguenza di questa “mala archeologia” fu che il professore di astronomia dell’Università di Cagliari, ignaro di questo arbitrario ed impensabile spostamento, del tutto antiscientifico, ma furbescamente burocratico, pubblicò le rilevazioni azimutali come vere, e così fu deriso a livello nazionale e internazionale. In conseguenza di ciò venne affermato il principio che le osservazioni di paleoastronomia e di archeoastronomia dovevano essere fatte dagli archeoastronomi soltanto dopo che i siti avessero ricevuto la convalida delle autorità archeologiche. È così avvenuto che nel promontorio del Caprione (La Spezia) esistevano prima circa 250 costruzioni a tholos, localmente dette “cavanei” (etimologia celtica da cabhan-cobhan, luogo rotondo) mentre ora se ne contano più di 40. Le pietre ad aggetto, a lastra, erano appetibili per gli immobiliaristi, che facilmente potevano utilizzarle per costruire edifici rustici con i relativi garage rustici. Una causa intentata dal rappresentante locale di Italia Nostra contro chi continuava a distruggere queste costruzioni della tradizione ligure (e non solo ligure, perché di origine armoricana, come affermato chiaramente da Louis-René Nougier dell’Università di Tolosa) non servì a fermare lo scempio, perché il CTU genovese prof. Tiziano Mannoni (Presidente dell’ISCUM, Istituto per la storia della cultura materiale) incaricato dal Pretore, scrisse che si trattava di costruzioni pastorali e che quindi potevano essere distrutte. Una analisi di archeoastronomia su una delle ultime strutture ancora intatte è stata pubblicata negli Atti del VII Convegno Nazionale della Società Italiana di Archeoastronomia, tenutosi a Roma nel 2007, mediante una comunicazione a titolo: “Penetrazione della luce del Sole al tramonto del solstizio d’inverno ed al tramonto equinoziale in una struttura a tholos del promontorio del Caprione (Lerici, La Spezia)”. Se fosse stato possibile conoscere ancora prima le valenze astronomiche di queste costruzioni, avrebbe potuto il suddetto CTU, stimatissimo docente di quell’istituto, dire che si potevano abbattere anche tutte le analoghe costruzioni del promontorio? Purtroppo quel docente era allora diffidente verso l’archeoastronomia, anche se successivamente “vi aderì con entusiasmo e convinzione appena si rese conto delle sue potenzialità e delle sue affinità con l’archeometria” (pag. 9 degli Atti del XI Convegno SIA, Bologna, 2011). In una delle volte in cui visitai Monte d’Accodi ho potuto conoscere lo scalpellino di cui si era parlato al convegno linceo “Archeologia e Astronomia: esperienze e prospettive future” (Roma, 26 novembre 1994) perché stava mostrando al nipote, proveniente dalla Germania, il menhir con le coppelle di cui aveva fornito l’orientamento. Si potrà sperare che non continui lo scempio dei cavanei? La Consulta dei Liguri è stata incaricata di redigere un inventario dei “beni archeologici minori”, ed un Comitato locale, con a capo la Società Marittima di Mutuo Soccorso di Lerici, è all’opera. Ma i cavanei sono beni minori, come una maestà o una fontana? Oggi l’archeoastronomia è stata inserita ufficialmente fra le discipline archeologiche e rientra nei settori di competenza dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria.
Dolmen di Codina (Lerici, la Spezia). Le selci che non potevano esserci
Nel sopra citato promontorio del Caprione si rinvengono molti reperti preistorici, ufficialmente ignorati dalla Sovrintendenza. In località Codina, a poca distanza gli uni dagli altri, si hanno i seguenti reperti:
- la statua-stele del principe guerriero di Lerici (V secolo a.C.) sistemata all’interno di una villa (riconosciuta);
- le rovine della cisterna romana a tre arcate di Senzano (toponimo romano dal gentilizio Sentius) presso la quale sono stati trovati molti cocci, fra cui un culetto d’anfora del I secolo portante il marchio Rufus, situata nel giardino di una villa (riconosciuta);
- il dolmen di Codina, orientato in meridiano, inserito in un oliveto adiacente una casa di civile abitazione (non riconosciuto).
Poiché la Soprintendenza genovese, con lettera ufficiale, aveva notificato al sottoscritto che nessuna delle 48 segnalazioni effettuate a mezzo raccomandata aveva valore scientifico, forte di questa dichiarazione ufficiale di “non esistenza” di valori archeologici, io ho potuto scavare all’interno del dolmen, in cui in antico scorreva l’acqua della soprastante fonte di Redarca (etimologia latina da rivus de aqua) e far emergere quindici selci, che sono state periziate dal petrografo dell’Università di Parma. Una di queste risultava provenire dai Monti Lessini. Le fotografie delle selci sono state pubblicate nel libro “La preistoria del Caprione” (2006) libro che è stato successivamente richiesto dal nuovo Sovrintendente, insediatosi nel 2009, per essere inserito nella biblioteca della Soprintendenza. Alla richiesta della Soprintendenza di consegnare ai propri uffici dette selci ho dovuto rispondere che dette selci erano in possesso (e per allora anche in proprietà) del titolare dell’oliveto, per lo meno fino a quando non venisse considerato falso il contenuto della lettera della Soprintendenza a me diretta. Il problema non pare risolvibile perché la lettera è una dichiarazione ufficiale di una autorità dello Stato. Per modificare questo stato di cose, tutto italiano, si dovrebbe accusare di falso la cattedra della vicina università di Pisa, che ha fornito, su richiesta della Sovrintendenza, il giudizio di “non consistenza”. Soltanto un giudice penale potrebbe dirimere la questione se vi fu dolo o colpa nel produrre quell’atto. Chissà se, trascorsi i termini della prescrizione, si potrà far emergere la verità? Come non chiedersi: cui prodest?
Ipogeo di Sas Concas (Sardegna): la farfalla scalpellinata
Essendo stato chiamato da una agenzia di viaggi di Oristano per proporre pacchetti di turismo culturale, ho potuto prendere atto che esisteva una farfalla incisa nella parete di trachite dell’ipogeo di Sas Concas (anche “Is Concas”). Stranamente questa immagine non è stata pubblicata nella “Guida N° 2 – Sardegna”, stampata in occasione del Congresso Internazionale di Preistoria e Protostoria, tenutosi a Forlì nel 1996. Di questa omissione avevo fatta segnalazione durante un dibattito nel convegno “Archeoastronomia: un dibattito tra archeologi ed astronomi alla ricerca di un metodo comune” (2002). La risposta si legge alla pagina 75 degli Atti, in cui uno dei Sovrintendenti presenti scrive: “Se in quella guida … l’autore ha ritenuto non opportuno scrivere o citare quella fonte, secondo me ha fatto benissimo! È legittimo farlo! ... Guai al cielo se fosse diversamente!”. Ciò appare apertamente in contrasto con la Convenzione di Londra del 1969. Ovviamente l’Italia viaggia sempre in ritardo sulla normativa europea. Debbo ringraziare della segnalazione dell’esistenza della farfalla non una Guida ufficiale redatta dalla Soprintendenza, ma il libero ricercatore Lello Fadda, ora scomparso, autore con Carlo Maxia del libro “Il mistero dei nuraghi rivelato con l’astroarcheologia”, in cui per la prima volta si introduce la nostra disciplina in Italia con questa denominazione. Accompagnando con la mia vettura due studiosi tedeschi dall’aeroporto di Olbia al centro della Sardegna, per partecipare al Congresso di Isili, organizzato dalla SEAC (Société Européenne pour l’Astronomie dans la Culture) nel giugno 2005, ho deviato di pochi chilometri dalla “Carlo Felice” per far visitare loro l’ipogeo. Con grande stupore ho dovuto prender atto che la farfalla era stata scalpellinata per una superficie di circa 40 x 50 centimetri. All’apertura del convegno proposi una presa di posizione di tutta l’assemblea contro un simile vandalismo, ma sia il Presidente della SEAC, sia il Presidente della SIA, rifiutarono, adducendo che non potevano credere ad un simile fatto! Non volli coinvolgere i due studiosi tedeschi e terminato il convegno rientrai subito in continente, raccolsi le immagini, sia ex ante sia ex post, e le inviai al Sindaco del luogo e al presidente della Comunità Montana della zona, perché facessero denuncia alla caserma più vicina dei Carabinieri, essendo io testimone che questi spesso stazionavano in quel luogo, perché vi era stata da non molto tempo una rapina ad un autobus di turisti svedesi. L’intervento rapido consentì di ritrovare gli attrezzi da scasso in una vicina domus de janas. Incredibilmente le autorità locali si erano poco prima rivolte alla Regione per collocare una cancellata all’entrata dell’ipogeo, ma la Regione aveva rifiutato i fondi adducendo che non si poteva, perché il contenuto archeologico dell’ipogeo era ancora da definire da parte della Sovrintendenza! La pubblicazione nella Guida UISPP non aveva quindi alcun valore! Forse perché la guida era stata stampata in continente? Oppure perché non si sapeva quale fosse il valore della farfalla? Ma allora le coppelle che rappresentavano costellazioni, lo shamano, la linea cielo-terra, le monadi dei capovolti, le camerelle successive, non erano da salvaguardare? Ho pubblicato questo misfatto nel libro “La preistoria del Caprione”. Cui prodest?
La farfalla reinterrata di Paulilatino (Sardegna)
Lo studioso Lello Fadda, di cui al precedente episodio, prima di morire, mi inviò la fotografia di un petroglifo a forma di farfalla che era stato portato alla luce in uno scavo effettuato dalla Soprintendenza presso il Pozzo di Santa Cristina. La pietra con il petroglifo era stata però risepolta ed egli volle mandarmela perché io ne diffondessi la conoscenza. L’immagine è stata così riprodotta nel libro “La preistoria del Caprione”. In termini del Teorema di Bayes sul calcolo delle probabilità composte appare significativo che ben tre eventi concatenati, aventi per oggetto la farfalla, siano avvenuti in Sardegna:
- la mancata pubblicazione dell’immagine del petroglifo di Sas Concas nella GUIDA N° 2 Sardegna;
- la scalpellinatura della farfalla all’interno dell’ipogeo di Sas Concas;
- il reinterramento del petroglifo a forma di farfalla nell’area del Pozzo di Santa Cristina.
Molti sorridono a fronte di queste notizie e pongono la domanda: “Ma chi può aver paura della farfalla?”. La farfalla è l’animale psicopompo dello shamanismo preistorico ed è quindi l’archetipo del ritorno al cielo dello spirito dell’uomo dopo aver compiuto l’esperienza sulla Terra, osservando la legge del contrappasso (gli ultimi saranno i primi). Sono molti i gruppi e le lobbies contrari a ciò. Si noti che in RAI 2, a partire dal 1994, si teneva il programma “Misteri” condotto dalla giornalista Lorenza Foschini. Avendo scoperto la formazione della farfalla dorata nel tetralite di San Lorenzo al Caprione, inviai alla suddetta giornalista la cassetta sullo svolgersi dell’evento, al tramonto del Sole al solstizio d’estate. Non ne ebbi risposta, salvo che nel logo dei programmi RAI apparve la farfalla. In effetti non si trattava di una farfalla, ma di due profili di viso contrapposti, secondo la mia opinione di certo una operazione esoterica per cercare di influire negativamente sulla diffusione della farfalla. In questi termini va letta l’iniziativa opposta, della creazione in San Lorenzo al Caprione di un “Musang Am”, cioè un tempio buddista “senza forma”, in quanto la liturgia del Buddismo di scuola coreana si avvale della danza funebre, eseguita da due sacerdoti vestiti a modo di farfalla, che danzano attorno alle ceneri del defunto. In vari convegni internazionali in cui ho mostrato il formarsi della farfalla dorata di San Lorenzo al Caprione si sono sviluppate reazioni fortemente negative. Un archeoastronomo messicano mi ha accusato di essere un baro, perché avrei copiato il meccanismo di quanto avviene in Messico e lo avrei ricostruito nel mio territorio, mentre un archeologo russo, nel 2000 a Mosca, si è opposto all’uso del termine shamano, che appartiene alla piccola tribù dei Tungusi, di poche centinaia di persone, perché nella grande Russia gli studiosi utilizzano il termine corrispondente a pietra. Cui prodest?
Una pietra con buco, ovvero l’ara di Monte Grosso (Cinque Terre, Liguria)
In un punto del celebre Sentiero C.A.I. delle Cinque Terre, posto al di sotto del Monte Bermego, in prossimità del vecchio segnale di triangolazione navale già usato per la “base misurata” <Campanile di Montenero-Punta Mesco>, si trova una grande ara con coppella centrale, mentre poco più avanti si trova un dolmen orientato in meridiano, con annessa una grande pietra a uovo spezzata a metà, anch’essa orientata in meridiano. Questa struttura è stata mostrata molti anni fa al prof. Proverbio, che ne ha riscontrati gli allineamenti. Comunicazione di questo ritrovamento è stata fatta per la prima volta nel Bollettino N° 65 del Giugno 1994 dell’Osservatorio Astronomico di Genova nell’articolo a titolo: “Meridiane preistoriche nelle Cinque Terre?”. Il direttore pro-tempore Riccardo Balestrieri volle mettervi il punto interrogativo, proprio perché la Soprintendenza non si era ancora pronunciata su questi reperti. Evidentemente questo articolo non piacque. Vi fu anche un attacco alle mie divulgazioni impostato sul giornale “La Nazione”, da parte del personale del Museo Civico della Spezia. Il più inconcepibile comportamento si ebbe però con la pubblicazione di un calendario, edito dalla locale Cassa di Risparmio, dotato di buone fotografie, in cui si mostrava la grande ara, ma senza definirla come tale, e cioè con la didascalia devalorizzante di “pietra con buco”! Analogo comportamento di eccessivo rigore si ebbe a proposito di simbologie rinvenute nel paese di Pignone, da me identificate come “templari”. In un libro su Pignone, pubblicato dal Comune di Pignone con l’Istituto di Studi sui Conti di Lavagna, furono pubblicate tutte le stesse mie immagini con la didascalia di “elemento plastico” (cioè pietra lavorata) certo più nobile della “pietra con buco”, ma pur sempre unaoccasione persa per valorizzare i tesori di un paese della Val di Vara che porta un nome nobilissimo, legato alla doppia spirale destrogira e levogira di Fibonacci.
Le Cassiopee cancellate dalla statuetta della shamana di Passo di Corvo (Foggia)
La grande archeologa Marija Gimbutas, nata in Lettonia ma trasferitasi negli Stati Uniti, ha scoperto nel villaggio di Passo di Corvo (Foggia) la statuetta di una shamana datata fra il 5700 e il 5300 a.C.. La statuetta mostra una donna in stato di trance con gli occhi socchiusi, con berretto, collana a V di 22 grani (11 avanti ed 11 dietro), i due seni, e al disotto dei seni le due costellazioni contrapposte di Cassiopea, nonché le due farfalle. Nella parte posteriore segni interpretabili come bisce d’acqua. Secondo le “fans” romane della grande archeologa femminista, che non sapevano che ella non conosceva affatto l’astronomia, anche le due Cassiopee sarebbero bisce d’acqua. Ho ricevuto da esse, per queste mie attribuzioni, critiche feroci, ma che la grande Marija non conoscesse l’astronomia me lo ha confermato un professore lettone, che era stato suo collega, e che peraltro ha scritto libri e articoli sull’archeoastronomia. Anche altri astrofili si sono scagliati in maniera maleducata contro le mie attribuzioni, arrivando – durante il primo Seminario ALSSA in cui avevo fatto una comunicazione su Cassiopea – ad apostrofarmi come fabbricatore di “masturbazioni mentali”. Il comportamento più deplorevole è però avvenuto nella mostra “Cacciatori e agricoltori preistorici nella Valle del Fiora” (Viterbo, 2004) dove in un poster, presentato da una professoressa dell’Università di Pisa, appariva la statuetta di Passo di Corvo privata delle due Cassiopee. Non si può pensare ad un errore, cioè che si fosse accorciata la sagoma dell’immagine facendo sparire i due segni, perché le due Cassiopee stanno fra i seni e le farfalle, che sono state riportate regolarmente. Queste rozze prese di posizione contro l’archeoastronomia sono incomprensibili e denotano mancanza di aggiornamento culturale perché nello stesso anno è stata organizzata a Firenze la mostra “Antichi segni dell’uomo” (2004) da parte dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, che aveva come logo il frammento di vaso di Porto Badisco (Otranto, V-IV Millennio a.C.) in cui sotto i due occhi e sotto il naso si può scorgere il segno a W di Cassiopea. Da un professore che risiede nella Valle del Fiora ho ora saputo che questa professoressa non è più contraria all’archeoastronomia. Sia il poster sia il frammento di Porto Badisco sono stati pubblicati nel libro “La preistoria del Caprione”.
La stele del Sentiero 118 CAI di Lunigiana, spezzata e ricomposta, e la sparizione del Kapala Yantra
(Comune di Bagnone, Massa)
Durante escursioni nell’Appennino Tosco-Emiliano è stato percorso il Sentiero 118 CAI, un sentiero sacro della preistoria. Lungo il sentiero si trovarono alla fine degli anni ’90 i seguenti reperti:
a) due grandi pietre a forma di losanga, una con coppella centrale, simbolo della Dea Madre Gravida, una senza coppella centrale, simbolo della Dea Madre Vergine;
b) il petroglifo con simbologie simili a quelle del sito sacro di Vijayanagar (Distretto di Hampi, India centrale) contenente la losanga, i due tridenti, il templum, il cerchio con angolo inscritto, la verga da rabdomante a rotazione verticale, la linea verticale;
c) lo shamano con il bastone ricurvo in alto e con l’angolo sotto la veste;
d) l’angolo;
e) un segno geometrico, poi riconosciuto come il Kapala Yantra;
f) il segno a phi, croci e iscrizioni di date;
g) tre stele, una all’inizio, una al centro ed una nella parte alta del sentiero. Tutte tre erano state cristianizzate nel XVII secolo, con l’inserimento di formelle di marmo di Carrara; un probabile San Giorgio in quella più bassa e lo Spirito Santo raggiato, a forma di colomba, nella stele alta. Nella stele mediana la formella risultava mancante, da vecchia data.
Ad un sopralluogo fatto in tempi successivi si è riscontrato che la strada sterrata, che prima si fermava più in basso della prima stele, era stata prolungata con l’utilizzo delle ruspe, distruggendo così il primo tratto di sentiero. Questa strada, lunga poche centinaia di metri, risulta ripidissima e proibitiva anche per i veicoli fuori-strada, per cui è stata chiusa con l’inserimento di una sbarra. Risultavano inoltre asportati sia la prima stele, quella cristianizzata con una formella rappresentante forse San Giorgio che invita un giovinetto all’ascensione, sia il Kapala Yantra. Avendo fatte rimostranze nelle sedi opportune (i lavori erano avvenuti in territorio facente parte del Comune di Bagnone, inserito peraltro nel Parco degli Appennini) dopo un certo periodo è riapparsa la stele, che appariva spezzata nella parte bassa e rinsaldata con materiale collante di colore grigio, risaltante contro il colore marroncino della pietra. Dalla comparazione delle fotografie appare chiaramente che lo sfondo ex-ante è ben diverso dallo sfondo ex-post. Nulla si sa del Kapala Yantra, simbolo unico delle conoscenze astronomiche e geografiche dell’India arrivate in Lunigiana con le migrazioni dei popoli Indoeuropei. L’etimologia deriva da kapala, la forma rotondeggiante del capo dell’uomo, con una linea orizzontale, una linea ortogonale verticale ed una linea inclinata, corrispondente all’altezza massima del Sole al passaggio in meridiano (utilizzata per il calcolo della latitudine di un luogo) e da yantra, la macchina. Il sistema è molto diffuso in India, con grandi costruzioni in muratura erette per il calcolo della latitudine dei diversi luoghi. Maggiore è la dimensione della macchina, maggiore è la precisione del calcolo. Non si comprende come all’inizio del Terzo Millennio, nella civilissima Europa, nella Toscana, patria di geni matematici come Fra Luca Paciolo, Fibonacci, Leonardo, Galileo, sia possibile arrivare a tanto scempio. Questo non è però il solo aspetto della questione (si veda il caso del libretto bloccato). Cui prodest?
Il tentativo di nascondere l’eccezionale scoperta di come sia stato inciso il petroglifo del Sentiero 118 CAI, di derivazione indiana (Vijayanagar)
Per poter presentare la scoperta del petroglifo di derivazione indiana al Valcamonica Symposium del 1996 il professor Emmanuel Anati richiese una perizia petrografica. Fu necessario chiedere l’intervento dell’insigne petrografo Roberto Chiari dell’Università di Parma, il quale con entusiasmo si arrampicò lungo il Sentiero 118 C.A.I. per studiare il petroglifo con il suo geniale metodo. Incise l’arenaria dapprima con una punta di osso, quindi con una punta di acciaio. In tutti due i casi prelevò le polveri con tampone di carta igienica bagnata, bianca, che fu poi essiccata, bruciata ed analizzata con la spettrografia. Il risultato portò alla scoperta che il petroglifo era stato sbozzato con il diaspro e rifinito con il calcedonio. Nei millenni precedenti aveva avuto una positura verticale, quindi era stato asportato ed usato per la costruzione del sentiero. Il diaspro usato proveniva dal più grande giacimento al mondo (Chiavari – Maissana). Del calcedonio mancava allora un riscontro in banche dati italiane. Di questa geniale scoperta il prof. Chiari lasciò una relazione contenuta in piccolo libretto tascabile a titolo ”Uguale da tanto tempo”, edito nel 1997 dalla Editrice Il Corriere Apuano, Pontremoli (MS) in cui sono state riprodotte, in appendice, le seguenti immagini:
- il petroglifo di Vijayanagar;
- la losanga della Dea Madre Gravida;
- le immagini riprese dal Microscopio Elettronico a Scansione, metallizzando con vapori di oro i quattro frammenti di diaspro e calcedonio.
Personalmente ho potuto vedere una così preziosa stampa nella sagra estiva di Bagnone del 2012, in una bancarella ove si raccoglievano fondi per bambini in difficoltà (il cuore certo si apre di fronte alle sofferenze dei bambini). La diffusione della cultura è avvenuta però con quindici anni di ritardo. Come si può calcolare il danno creato all’evoluzione della conoscenza? E soprattutto, come non chiedersi a chi giovi ciò?
L’equinozio impossibile di Filitosa (Corsica)
Un viaggio culturale in Corsica, all’Università di Corte, per partecipare al “Congrès International Environnement et Identité en Méditerranée” (3-5 Luglio 2002) ha consentito di scoprire nel sito di Filitosa un bellissimo allineamento equinoziale, formato da una grande pietra vulviforme e da un grande menhir, alto circa quindici metri, allineati con il crinale del monte opposto, in cui il Sole tramonta all’equinozio. Preso atto che questa scoperta era una novità, nonostante decine e decine di studiosi si fossero avvicendati a studiare questa stupenda stazione di statue-stele del Mediterraneo, dopo aver invitato lo studioso còrso di astronomia del Club di Ajaccio, Anton-Marie Ottavi, ad assistere al tramonto equinoziale del successivo settembre 2002, era stato deciso – insieme a lui – di presentare la scoperta a Corte, al convegno dell’estate successiva. Va detto che la prima ad accorgersi dell’allineamento era stata mia moglie, ormai abituata all’osservazione sul campo. Va anche detto che nel Febbraio 2002 e nel Novembre 2002 si erano tenute a Genova ed a Sanremo due sessioni del convegno a titolo “Archeoastronomia – Un dibattito tra Archeologi ed Astronomi alla ricerca di un metodo comune”. Nella sessione autunnale di Sanremo ho dato comunicazione di questa notevole scoperta, ma proprio uno dei punti più dibattuti riguardava il concetto di equinozio. Si metteva in dubbio che gli antichi potessero conoscere il concetto di equinozio (Giorgia Foderà), soprattutto perché mancava l’orologio (Tiziano Mannoni) e quindi non si poteva conoscere il momento esatto in cui il fenomeno avveniva. Al convegno era presente anche il prof. Clive Ruggles dell’Università di Leicester (U.K.) che, secondo Giorgia Foderà, aveva scritto un articolo fondamentale che faceva il punto sulla situazione, a titolo: “Whose equinox?” [vedi sito ALSSA: www.alssa.it, nella sezione “altri contributi”, N.d.R.]. Egli sostanzialmente riteneva che gli allineamenti equinoziali fossero casuali, perché l’equinozio non è visibile. Si era discusso dell’utilizzo del termine “allineamento equinoziale” (cioè Est-Ovest, ossia con azimut 90°-270°) da parte degli archeologi e sul significato dello stesso termine usato invece dagli archeoastronomi, che possono riconoscere come equinoziali anche allineamenti che si discostino da 90°-270°, ma che corrispondano esattamente al fenomeno astronomico visibile in un luogo, che abbia all’orizzonte il profilo di rilievi diversi in altezza da 0°, sia verso il sorgere sia verso il tramonto. Nel contempo in Corsica una parte degli astronomi del Club di Astronomia di Ajaccio aveva fondato la nuova associazione A.R.C.A. (Amatori Regione Corsa di Archeoastronomia) che aveva partecipato attivamente ai due convegni isolani “Corsican Workshop of Archaeastronomy: Archaeastronomy, an interdisciplinary science” – University of Corsica, Filitosa (13-17 Giugno del 2004) e “Congrés Environnement et Identité en Méditerranée, Université de Corse “Pascal Paoli”, Corte (19-25 Luglio 2004) in cui venivano mostrati gli allineamenti equinoziali di Corsica attraverso l’affermazione che gli antichi abitatori, prescindendo da quale termine usassero per indicare il fenomeno astronomico dell’equinozio, rilevavano lo stesso momento astronomico attraverso la “droite d’équinoxe”, cioè l’ombra diritta dello gnomone, che si forma soltanto in questa situazione astronomica. Veniva quindi a cadere la preclusione degli archeoastronomi inglesi, e di parte degli archeologi e archeoastronomi italiani, verso la rilevazione sul campo di allineamenti equinoziali. Poiché non si davano alle stampe gli atti del convegno di Genova e Sanremo (2002) da cui doveva emergere l’affermazione che “gli allineamenti equinoziali erano casuali” furono fatte ripetute rimostranze all’Istituto Internazionale di Studi Liguri ed anche al Ministero della Cultura. Dopo innumerevoli peripezie, anche per problemi di fondi, soltanto nel 2009 gli atti videro la luce.
Il tentativo di interrare la pietra “della eiaculazione” e il suo salvataggio (Sardegna)
Il 24 luglio 2000 il giornale “La Nazione” pubblicava un articolo a titolo “Il deserto svela il primo graffito erotico della storia” e mostrava la fotografia di una incisione preistorica dell’Oasi di Dakhla, nel deserto posto ad occidente di Luxor. Una missione archeologica dell’Istituto Francese di Archeologia Orientale aveva studiato il sito di Ayn-Asil con reperti del 2.200 a.C. ed in prossimità degli scavi erano stati scoperti graffiti. Uno di questi veniva interpretato come il membro maschile che penetrava il sesso femminile. Durante le ricerche sul campo effettuate nell’estate 2000 per conto di una agenzia turistica di Oristano, avvenne che ispezionai – in territorio del Comune di Villa S.Antonio (Oristano) – una strada megalitica con molti menhir, domus de janas, canalizzazioni di acque e un grande lastrone di pietra, prossimo a quello che in antico doveva essere un corso d’acqua, portante una profonda incisione, realizzata nelle tre dimensioni, da me giudicata come attinente i culti della fecondazione ed in particolare della eiaculazione. Le due parti della incisione erano rese comunicanti da un foro, ed essendo la lastra in leggera pendenza, era possibile far scorrere acqua dalla parte superiore, rappresentante il membro maschile, alla parte inferiore, rappresentante la vagina. Mentre stavo misurando e fotografando questa incisione arrivò un grosso camion, con cassone ribaltabile, che si apprestava a ricoprire il tutto. Non mi volli togliere dal luogo e minacciai il conducente del mezzo, di cui avevo annotato e fotografato la targa, di denunciarlo perché non vi era alcuna indicazione che quella fosse una discarica autorizzata. L’uomo capì che stavo giocando duro, perché gli dissi che ero un ambientalista della Liguria, abituato purtroppo a fare dure battaglie ambientali per cose ben più gravi (rifiuti tossici, velenosi e radioattivi) e se ne andò. Corsi immediatamente in Comune a segnalare al Sindaco cosa egli avesse autorizzato, perché quella era sicuramente un’area archeologica, ed egli non poteva autorizzare il sito come discarica comunale (peraltro non ancora segnalata a dovere, e forse neppure deliberata a dovere). Il Sindaco fermò la discarica. Al rientro a sera ad Oristano, per effettuare il rapporto sulle mie ricerche sul campo, fui investito dalla titolare dell’agenzia perché ero andato a fornire un “goal” di turismo culturale ad un comune di colore politico diverso dal suo! La cosa, subito arrivata alle orecchie dei politici provinciali e regionali di Oristano aveva fatto scalpore e lei ne era stata incolpata! Non essendo abituato a trattare compromessi, dissi che non intendevo sottostare a certe pretese, per cui lasciavo l’impresa, non pretendendo nulla per le mie ricerche. Poiché mi si chiedeva di non pubblicare la scoperta, annunciai invece che ne avrei fatta comunicazione in autunno al prossimo Valcamonica Symposium 2000. Ciò avvenne con una comunicazione a titolo: “Culto della fecondazione e simbologia cosmogonica in Sardegna”, redatta con la perizia del geologo Davide Gori e dell’antropologo sardo prof. Lello Fadda, colui che mi aveva fatto conoscere la farfalla di Sas Concas. A controprova della identificazione presentai l’individuazione, accanto all’incisione, di cinque coppelle che rappresentano il membro maschile con i testicoli, così come veniva disegnato nei banchi e nei muri delle scuole dai ragazzi più discoli (schema 3 + 2). A sostegno della materia citai la rappresentazione nella grotta di Porto Badisco (la più grande grotta shamanica d’Europa) della coppia di maschio e femmina che si baciano, con al di sopra un grande cuore, come segnalatomi dalla archeologa pugliese Laura Leone, autorizzata per conto del prof. Anati ad effettuare studi nella grotta.
Un falso disegno di Çernumnos (Appennino Tosco-emiliano) nel Bollettino del Club Alpino Italiano – Sezione della Spezia
La rivista del Club Alpino Italiano n° 6/2011, alle pagine 34 e 35 degli Itinerari, ha pubblicato l’articolo “La Francigena in Toscana – L’omino del Sillara testimone di un antico itinerario” scritto da un socio della Sezione di Sarzana. Preso atto di ciò ho inviato in data 29/3/2012 una lettera raccomandata al Club Alpino Italiano – Sede Nazionale, in cui precisavo quanto segue:
a) prendevo atto che la Sovrintendenza della Toscana, che aveva ignorato comunicazioni fatte un decennio prima, aveva manifestato interesse per il ritrovamento vero;
b) che la scoperta era stata fatta quarant’anni prima dal marito di una cugina di mia moglie e da Marcello Gozzi, entrambi soci CAI. Essi avevano steso una tovaglia su un masso per fare colazione e nel toglierla avevano notato il petroglifo. Le relative fotografie erano state consegnate al Museo Civico della Spezia;
c) passarono gli anni e nel 1994 l’immagine del petroglifo fu pubblicata nel libro di Priuli & Pucci a titolo: “Incisioni rupestri e megalitismo in Liguria” (Priuli & Verlucca Editori, Ivrea);
d) essendo io studioso di toponomastica celtica e sostenendo che il nome del Monte Sillara sia derivato da “Silvanus + ara”, cioè il Dio Silvano corrispondente al celtico Çernumnos, chiesi informazioni all’amico Italo Pucci, il quale mi precisò di non essere stato sul posto, ma di aver avuto l’immagine da una dipendente del Museo Civico della Spezia;
e) poiché stavo effettuando le ricerche sull’Appennino Tosco-Emiliano con giovani di Bagnone, iniziai le ricerche sui crinali;
f) fui depistato dall’immagine pubblicata da Marcello Gozzi nel Bollettino della Sezione CAI della Spezia del 1994, che mostrava un suo disegno (falso) di una pietra-altare triangolare, sostenuta da tre pilastrini di sassi, contornata da un cerchio di pietre;
g) feci ricerche cartografiche e con le prime mappe satellitari, ma senza esito alcuno, anche perché, secondo il Gozzi, la pietra-altare doveva trovarsi a circa 1.600 metri di quota.
Nel 2011 ho ricevuto le vere immagini del masso-altare, contenente il petroglifo del Dio Çernumnos, scattate da un gruppo di giovani che, sulla scia delle immagini pubblicate nel mio libro “La preistoria del Caprione” stavano battendo i crinali per verificare l’esattezza delle mie indicazioni relative alla Lunigiana Storica. Preso atto di ciò, chiedevo una verifica del perché a qualcuno della Sezione CAI della Spezia interessasse allora, o depistarmi nella ricerca, o comunque prendermi in giro. Naturalmente, italianamente, non ebbi alcuna risposta alla mia raccomandata. Ho tolto il pezzo finale.
Un depistaggio veramente eccellente
Nel 1990 pubblicai il terzo “quaderno del territorio” a titolo “Raccolta di toponimi del territorio di Lerici – tomo III” in cui veniva trattato il borgo di Barbazzano, luogo in cui il Vescovo-conte di Lunigiana aveva i suoi marinai fidati, che lo accompagnavano a Pisa, Genova, Aigues Mortes o usque Romam in propria galea sive saiectea ed ove egli si recava alla Madonna di Mezzo Agosto per fare i bagni con acqua di mare. Nel trattare di questo luogo avevo scritto in chiusura: “Il grande interesse che gli studi su Barbazano rivestono, è rallentato dall’impossibilità di poter accedere all’archivio del Banco di San Giorgio, trasferito a Roma, e tuttora in fase di catalogazione (o forse ancora imballato?) ecc.”. Perché avevo scritto ciò? Allora ero iscritto al Partito Socialista Italiano ed uno dei Presidenti regionali era del P.S.I.. Avevo certi contatti con la Regione per l’organizzazione dello spegnimento degli Incendi Boschivi con i Volontari delle Pubbliche Assistenze. Avendo parlato delle mie ricerche di toponomastica, mi fu detto che egli si sarebbe interessato per farmi accedere ai documenti che cercavo. Più tardi mi fu però da lui risposto che non era più possibile, perche i documenti erano in fase di trasferimento a Roma. La cosa non risultò però vera perché i documenti giacciono presso l’Archivio di Stato di Genova, dove sono stati riordinati dal prof. Giuseppe Felloni della Società Ligure di Storia Patria. Perché farmi fare una così stupida figura?
La sparizione dell’ascia di rame del Castellare di Pignone (La Spezia)
Il castellare di Pignone è stato trattato nel libro “Dal diaspro al bronzo – L’Età del Rame e l’Età del Bronzo in Liguria: 26 secoli di storia fra 3600 anni e 1000 anni avanti Cristo” (Luna Editore, La Spezia, 1998). Il libro è stato stampato sotto l’egida della Sovrintendenza Archeologica della Liguria, come Quaderno N° 5. Nessun dubbio quindi sul riconoscimento dei valori archeologici del castellare. Nel 1972 era stato pubblicato il libro “Pignone” a cura di Gino Bellani il quale, agli inizi degli anni Cinquanta, aveva scavato nel castellare ed aveva trovato un’ascia di rame, che aveva fatto pervenire alla Soprintendenza, e di cui aveva pubblicato gli schizzi nel Giornale Storico della Lunigiana del 1955 e del 1957, senza però farnefotografia, e sembra senza essersene fatta rilasciare ricevuta. Non si è più parlato di quel ritrovamento (allora considerato non credibile dalla Soprintendenza) fino alla scoperta dell’Uomo del Similaun, la cui ascia apparve eguale a quella trovata dal Bellani. Ora ci si sta chiedendo: “Ma dove è finita l’ascia del Bellani?”. Che pensare? Sembra di assistere al ripetersi di un ritardo simile a quello rilevato nella comunicazione di Monte d’Accodi.
Un tentativo di depistaggio con un seggio d’ascia inciso presso il menhir legato al culto di Shiva, costituente il punto Beta Cassiopeiae (Arcola, la Spezia)
Uno dei cinque siti di Cassiopea è il luogo detto “Canaa Granda”, in località Guercio, poche decine di metri al di là della strada Lerici-Sarzana (strada di confine fra i comuni di Lerici ed Arcola). Lì si rinviene un grande menhir tondeggiante, che porta alla sommità una corona di sette coppelle con coppella centrale (culto di Shiva) corrispondente a Beta Cassiopeiae. Il menhir fa parte dell’allineamento Tetralite di San Lorenzo – menhir di Canaa Granda – menhir di Tramonti di Schiara (noto come “pietra del diavolo”) che mette in comunicazioni strutture megalitiche della costa orientale del golfo (nei Comuni di Lerici ed Arcola) con strutture della costa occidentale (in Comune della Spezia). Ciò è osservabile nella carta nautica n. 115 dell’Istituto Idrografico a nome “Golfo di La Spezia”, in scala 1 : 25.000. Secondo la tradizione, in questo luogo (Canaa Granda) avvengono fenomeni inspiegabili (se gh’a resenta) così come presso la “pietra del diavolo” nei Tramonti di Schiara (etimologia celtica da skeir-na). In un grande masso che sovrasta l’area di Canaa Granda, all’inizio degli anni 2000, era stato rinvenuto un seggio a forma di ascia, con però anche il manico. Vi era stato colato dello stagno fuso e ne era stata ricavata un’ ascia metallica. In letteratura niente di simile era mai stato rinvenuto, e ciò che rendeva improbabile il costrutto era l’alto valore del metallo impiegato anche per costruire il manico. C’era però un metodo sicuro, cioè datare i cristalli della roccia nel punto in cui era stato ricavato il seggio. Con il geologo Davide Gori è stato fatto il campione, che, esaminato con la spettrografia ha fornito la seguente datazione: “da 0 a 100 anni”. Un gustoso atto di depistaggio. Ancora una volta occorre chiedersi: Cui prodest?