GLI ORTI CHIUSI IN LERICI E LA PRESENZA EBRAICA
Nel “Libro dei Legati” del 1641 della Parrocchia di San Terenzo si legge: “Nota cavata dal Libro di Sebastiano Massa tale e quale a carta 76; 1672 a 27 ottobre. Faccio nota come si è dichiarato che la muraglia, ch’è contra alla Casaccia alta undici palmi antica del mio orto, la Casaccia non gli ha da fare niente, è perché io era Sinore la feci alzare palmi otto con autorità del Consiglio l’anno 1667 come dalli Libri del S.Oratorio appare si è dichiarato, che dalli palmi undici in su volendo fabbricare, non mi possono impedire né far pagare la muraglia neli orti di sei per fine lavori”. Si tratta di una controversia di confine, per l’innalzamento di un muro su una parte di muro precedentemente costruito, in modo da chiudere completamente il terreno. Ciò rientra nella tradizione degli “orti chiusi”, che ha lasciato alcune tracce storiche tali da non poter essere ignorate.
Il più antico esempio sembra essere il cosiddetto “Orto Magno”, che si rinviene nella conca solatia sottostante Solaro. Si tratta di una imponente costruzione di muri a più piani che sostengono le “piane” di coltivazione, fatto risalire ai tempi dei Romani.
Nello stesso “Libro dei Legati” della Parrocchia di San Terenzo, nella pagina terza di copertina, da me scoperta grazie alla sensibilità dell’allora Parroco Don Gallo, appassionato di storia, che mi consentì di aprire e leggere detto volume, si legge degli “orti” di Villa Marchi, Villa dei Rocca, Villa dei Massa-Sarioni.
Questa mappa fu pubblicata nel “quaderno del territorio” n° 13 edito dalla Associazione di Pubblica Assistenza di Lerici nel 1990 e scritto da Mara Borzone, avente titolo “Storia e storie nascoste, culti e culture, spazi pubblici e spazi privati a Lerici”. In detto quaderno, fuori commercio e diffuso fra i soci dell’associazione, fu pubblicata anche la fotografia del giardino di Casa Mari, un complesso giardino a più piani, posto dietro la cortina di case di Via Roma, l’antica “Tra Già”, cioè “tra la ghiaia”, cioè la via in cui le case di Lerici erano costruite in riva al mare, che arrivava alla spiaggia di ciottoli e lambiva il muro di contenimento della strada. Questa immagine è stata ripubblicata alla pagina 60 del libro “Lerici – La storia in fotografia”- Vol.II, con la didascalia “ragazze in costume nel giardino di casa Sturlese-Mari”. La cortina delle case di “Tra Già” è visibile nella fotografia n° 2 del volume I di “Lerici – La Storia in Fotografia”. La costruzione di un giardino così complesso, su più piani, ricco di statue, era stata possibile con gli introiti della attività armatoriale della famiglia Sturlese, una delle antiche famiglie lericine, dal portentoso cognome di derivazione osco-umbra, legato alla offerta della torta “struhçla” della liturgia delle Tavole di Gubbio, preparazione oggi conosciuta come “strudel”, etimologicamente la “avvoltolata” o il vortice, da considerarsi propiziatoria per la potenza maschile.
I muri di protezione degli orti si leggono anche nelle fotografie 12 e 13 del volume I, relative agli anni 1870-1875, in cui viene riprodotta la “Casa Bianca” che ospitò Shelley. Analoga visione, ma questa volta dall’interno, si legge nella successiva fotografia 19, mentre le fotografie 20 e 21 ripresentano la muraglia vista dall’esterno.
Un’altra immagine che riporta più moderni orti chiusi è quella della “strada nèva”, cioè la n° 150 del volume II, data 1924, immagine ripresa dopo la chiusura del Canale di Carbognano. Sia l’immagine del giardino dell’armatore Sturlese, sia l’immagine della Casa Bianca sono state anche pubblicate nel libro “Gulf of Poets: the Magic of Caprione”. Una importante mappa dell’esistenza di una grande giardino ove si coltivavano gli agrumi si rinviene nella cartografia francese,esistente presso l’Archivio di Stato di Genova, a proposito del primo nucleo dell’attuale Villa Marigola. Mara Borzone apre una luce su questa tradizione architettonica e culturale degli “orti chiusi”, cioè di questi “spazi urbani lericini, un po’ infossati, ben riparati dal caldo, dal freddo e soprattutto dal vento, profumati dai fiori dell’arancio, del cedro e del limone” (pag. 16 – quaderno n° 13). Appare importante, nella stessa pagina, la seguente citazione: “Monsignor Bosio, visitatore apostolico durante la Controriforma, vide questa tendenza alla privatizzazione degli spazi un pericolo immediato, considerò il giardino come ambito demoniaco e ne condannò pubblicamente l’usanza”. Altrettanto esplicativa la citazione di pag. 22, a proposito delle “vibrate proteste di Mons. Spinola, che nel 1674 lamentava troppa confidenza, scarsa ortodossia e gravi pericoli nelle chiacchiere scambiate tra ebrei e cristiani all’ombra dei loro giardini”. L’ombra dei giardini va osservata non soltanto come ombra degli alberi che vi erano stati messi a dimora, ma anche come ombra degli alti muri di recinzione, che creavano, oltre che ombra, anche riservatezza. Esiste in proposito una precisa documentazione sui rapporti più recenti fra Ebrei e Cristiani in Lunigiana, senza voler risalire alla lettera inviata da Gregorio Magno al Vescovo di Luni Venanzio (594-603), universalmente nota perché vi si invita il pastore lunense a riscattare i cristiani che servono come schiavi presso i ricchi commerciati ebrei di Luni. Si tratta delle “Costituzioni Sinodali della Diocesi di Luni-Sarzana”, un importante documento ufficiale della chiesa lunense. Nel Capitolo VII – De Iudeis, si legge: “ Non sia lecito ai fedeli di Cristo avere consuetudine coi Giudei, e si precisa meglio, affinché nessun Cristiano possa conversare familiarmente con un Giudeo, né prestare opera, ossequio, o servitù; né similmente con essi o da essi prendere cibo, né i loro pani azzimi, né sedere a pranzo assieme, né fare i loro giochi, né partecipare ai loro cori, né tenerli nelle proprie case, né nel giorno di sabato accendere il fuoco per essi, né fornirgli la legna, né fornire loro gli agnelli; se questo venga contravvenuto dovranno pagare dieci denari, applicandoli per il nostro Seminario. Si faccia attenzione che nessuna femmina cristiana faccia commercio carnale, per nessuna ragione, né si rechi presso di essi e vi rimanga, sotto pena di scomunica, che avendone sentito dire, soltanto potrà essere cancellato con nostra assoluzione”. Il testo continua con le prescrizioni per gli abiti dei Giudei, dei colori e delle fogge che debbano avere. In un altro Sinodo si aggiunge che le donne cristiane non possano allattare fanciullini giudei, né medici cristiani possano prestare ai Giudei i loro servizi.
Da tutto quanto sopra citato si deve intendere che la presenza degli Ebrei in Lunigiana non fosse insignificante, e particolarmente ciò fosse importante in Lerici, ove ancora si può riconoscere la zona del Ghetto (e dove si tramanda il soprannome “Ghetin”).
Testimonianza importante dell’esistenza del Ghetto è quella di Giuseppe Bandini, fratello dell’Inquisitore a Malta, il quale, nel 1754, venuto a Lerici da Roma per imbarcarsi sulla galera diretta a Malta, scrive che “levatene le case che sono sulla piazza, il resto è un Ghetto”. Ed è proprio durante lavori di ristrutturazione di una casa del Ghetto che nel dopoguerra sono stati ritrovati i rotoli (della Torah?) che il muratore di Tellaro, conosciuto dialettalmente come “Sansonetto”, mi raccontò di aver portato al Parroco del tempo, Monsignor Costantino Faggioni, mettendoli su una cassetta da frutta che si era fatto dare dal negozio di fruttivendolo ancora oggi aperto fuori della porta del Ghetto.
Elementi aggiuntivi della presenza degli Ebrei in Lunigiana, oltre alla consolidata presenza ebraica in Luni e Nicola, sono due toponimi, uno di Sarzana (il Canale degli Ebrei) e l’altro di Veppo (Piana degli Ebrei) in Val di Vara. Significativa la loro ubicazione in prossimità di antichi confini di stato, in modo da poter espatriare facilmente in caso di persecuzioni. Tracce etnografiche della presenza ebraica sono da considerare alcuni nomi o soprannomi, quali Rabbì a Lerici o i Rebecchi in Val di Vara, l’aggettivo “sadò” (dialettalmente “credulone”) di Tellaro, il soprannome “quei de Temin” per indicare una delle famiglie, sempre in Tellaro (sadok e temem sono due perfetti termini ebraici). Nell’elenco dei cittadini lericini che giurarono fedeltà a Genova, scritti nel documento del 1562 denominato “Instrumentum Fidelitatis Illicis cum possessione” si leggono un Simon Todechus ed un Petrus Todecho, un Simon de Betel, nonché alcuni “de Benedictis”.
Una forte ed inoppugnabile testimonianza di presenza di Ebrei in Lunigiana si ha nell’atto del 1230, ottobre 3, indizione 3 del Codice Pelavicino, in cui si stipula un contratto con cui i nobili di Falcinello danno al vescovo Guglielmo alcune porzioni del castello di Falcinello in cambio della terza parte del pedaggio che si esigeva presso Sarzana. Nell’atto si vede partecipare un “Gibertinus quondam Code Iudei pro se et fratre suo Rollandino et pro sua eiusque uxore negocium eorum gerendo”. Poiché l’atto si riferisce al territorio di Falcinello, conferma quindi la validità e l’importanza del toponimo Canale degli Ebrei, che è posto proprio nelle vicinanze. Non è possibile sapere se i vari cognomi che si trovano elencati nel Codice, preceduti dal suffisso -bon-, quali i Bonapars, Bonaiuncta e Bonazuta, i Bonavita, i Bontempi, i Bonastrenna, i Bonalbergo, i Bonaccorsi e Bonacursellus, i Bonfiliolus e Bonfigli, i Bonabrocha, i Bonaveri e Bonavera, i Bonaventura, i Bonincontro e Bonencontro, i Boninsegna e Bonensigni, i Bonaiuta, i Bonfigetus, i Bonicus, i Bonavocis, i Bondiem, i Bondetuse, i Bonafesta (non i Bonacaptus) possano essere considerati relativi ad Ebrei convertiti. Di un David Polaccus filius ebrei livornesis, che risulta battezzato nel 1690, da notizia Mara Borzone alla pagina 19 del quaderno n° 13.
Una interessante ipotesi gastronomica, emersa anche in recenti giornate di studio sulla “spongata” (il dolce lunigianese la cui etimologia deriva dalla voce greca spongia – spugna), fa risalire la tradizione di questo dolce alla presenza ebraica in Lunigiana, che risale ai tempi dei Romani, quando Luni era la principale base navale del Commissariato Militare Romano per rifornire di cereali le truppe stanziate nell’Europa Centrale, essendo allora il mercato mediterraneo di granaglie in gran parte gestito da mercanti ebrei. Attraverso i passi appenninici la conoscenza della ricetta di questo dolce sarebbe arrivata al di là dell’Appennino Tosco-Emiliano e avrebbe raggiunto anche la Val d’Aosta, nell’ambito delle diramazioni degli itinerari della Via Romea e della Via Francigena, modificandosi soltanto in alcuni dettagli.
Il prof. Calzolari ha contribuito alla stesura del “quaderno del territorio” a titolo “Nel cuore di Lerici Via del Ghetto” – Edizioni Cinque Terre
Nel “Libro dei Legati” del 1641 della Parrocchia di San Terenzo si legge: “Nota cavata dal Libro di Sebastiano Massa tale e quale a carta 76; 1672 a 27 ottobre. Faccio nota come si è dichiarato che la muraglia, ch’è contra alla Casaccia alta undici palmi antica del mio orto, la Casaccia non gli ha da fare niente, è perché io era Sinore la feci alzare palmi otto con autorità del Consiglio l’anno 1667 come dalli Libri del S.Oratorio appare si è dichiarato, che dalli palmi undici in su volendo fabbricare, non mi possono impedire né far pagare la muraglia neli orti di sei per fine lavori”. Si tratta di una controversia di confine, per l’innalzamento di un muro su una parte di muro precedentemente costruito, in modo da chiudere completamente il terreno. Ciò rientra nella tradizione degli “orti chiusi”, che ha lasciato alcune tracce storiche tali da non poter essere ignorate.
Il più antico esempio sembra essere il cosiddetto “Orto Magno”, che si rinviene nella conca solatia sottostante Solaro. Si tratta di una imponente costruzione di muri a più piani che sostengono le “piane” di coltivazione, fatto risalire ai tempi dei Romani.
Nello stesso “Libro dei Legati” della Parrocchia di San Terenzo, nella pagina terza di copertina, da me scoperta grazie alla sensibilità dell’allora Parroco Don Gallo, appassionato di storia, che mi consentì di aprire e leggere detto volume, si legge degli “orti” di Villa Marchi, Villa dei Rocca, Villa dei Massa-Sarioni.
Questa mappa fu pubblicata nel “quaderno del territorio” n° 13 edito dalla Associazione di Pubblica Assistenza di Lerici nel 1990 e scritto da Mara Borzone, avente titolo “Storia e storie nascoste, culti e culture, spazi pubblici e spazi privati a Lerici”. In detto quaderno, fuori commercio e diffuso fra i soci dell’associazione, fu pubblicata anche la fotografia del giardino di Casa Mari, un complesso giardino a più piani, posto dietro la cortina di case di Via Roma, l’antica “Tra Già”, cioè “tra la ghiaia”, cioè la via in cui le case di Lerici erano costruite in riva al mare, che arrivava alla spiaggia di ciottoli e lambiva il muro di contenimento della strada. Questa immagine è stata ripubblicata alla pagina 60 del libro “Lerici – La storia in fotografia”- Vol.II, con la didascalia “ragazze in costume nel giardino di casa Sturlese-Mari”. La cortina delle case di “Tra Già” è visibile nella fotografia n° 2 del volume I di “Lerici – La Storia in Fotografia”. La costruzione di un giardino così complesso, su più piani, ricco di statue, era stata possibile con gli introiti della attività armatoriale della famiglia Sturlese, una delle antiche famiglie lericine, dal portentoso cognome di derivazione osco-umbra, legato alla offerta della torta “struhçla” della liturgia delle Tavole di Gubbio, preparazione oggi conosciuta come “strudel”, etimologicamente la “avvoltolata” o il vortice, da considerarsi propiziatoria per la potenza maschile.
I muri di protezione degli orti si leggono anche nelle fotografie 12 e 13 del volume I, relative agli anni 1870-1875, in cui viene riprodotta la “Casa Bianca” che ospitò Shelley. Analoga visione, ma questa volta dall’interno, si legge nella successiva fotografia 19, mentre le fotografie 20 e 21 ripresentano la muraglia vista dall’esterno.
Un’altra immagine che riporta più moderni orti chiusi è quella della “strada nèva”, cioè la n° 150 del volume II, data 1924, immagine ripresa dopo la chiusura del Canale di Carbognano. Sia l’immagine del giardino dell’armatore Sturlese, sia l’immagine della Casa Bianca sono state anche pubblicate nel libro “Gulf of Poets: the Magic of Caprione”. Una importante mappa dell’esistenza di una grande giardino ove si coltivavano gli agrumi si rinviene nella cartografia francese,esistente presso l’Archivio di Stato di Genova, a proposito del primo nucleo dell’attuale Villa Marigola. Mara Borzone apre una luce su questa tradizione architettonica e culturale degli “orti chiusi”, cioè di questi “spazi urbani lericini, un po’ infossati, ben riparati dal caldo, dal freddo e soprattutto dal vento, profumati dai fiori dell’arancio, del cedro e del limone” (pag. 16 – quaderno n° 13). Appare importante, nella stessa pagina, la seguente citazione: “Monsignor Bosio, visitatore apostolico durante la Controriforma, vide questa tendenza alla privatizzazione degli spazi un pericolo immediato, considerò il giardino come ambito demoniaco e ne condannò pubblicamente l’usanza”. Altrettanto esplicativa la citazione di pag. 22, a proposito delle “vibrate proteste di Mons. Spinola, che nel 1674 lamentava troppa confidenza, scarsa ortodossia e gravi pericoli nelle chiacchiere scambiate tra ebrei e cristiani all’ombra dei loro giardini”. L’ombra dei giardini va osservata non soltanto come ombra degli alberi che vi erano stati messi a dimora, ma anche come ombra degli alti muri di recinzione, che creavano, oltre che ombra, anche riservatezza. Esiste in proposito una precisa documentazione sui rapporti più recenti fra Ebrei e Cristiani in Lunigiana, senza voler risalire alla lettera inviata da Gregorio Magno al Vescovo di Luni Venanzio (594-603), universalmente nota perché vi si invita il pastore lunense a riscattare i cristiani che servono come schiavi presso i ricchi commerciati ebrei di Luni. Si tratta delle “Costituzioni Sinodali della Diocesi di Luni-Sarzana”, un importante documento ufficiale della chiesa lunense. Nel Capitolo VII – De Iudeis, si legge: “ Non sia lecito ai fedeli di Cristo avere consuetudine coi Giudei, e si precisa meglio, affinché nessun Cristiano possa conversare familiarmente con un Giudeo, né prestare opera, ossequio, o servitù; né similmente con essi o da essi prendere cibo, né i loro pani azzimi, né sedere a pranzo assieme, né fare i loro giochi, né partecipare ai loro cori, né tenerli nelle proprie case, né nel giorno di sabato accendere il fuoco per essi, né fornirgli la legna, né fornire loro gli agnelli; se questo venga contravvenuto dovranno pagare dieci denari, applicandoli per il nostro Seminario. Si faccia attenzione che nessuna femmina cristiana faccia commercio carnale, per nessuna ragione, né si rechi presso di essi e vi rimanga, sotto pena di scomunica, che avendone sentito dire, soltanto potrà essere cancellato con nostra assoluzione”. Il testo continua con le prescrizioni per gli abiti dei Giudei, dei colori e delle fogge che debbano avere. In un altro Sinodo si aggiunge che le donne cristiane non possano allattare fanciullini giudei, né medici cristiani possano prestare ai Giudei i loro servizi.
Da tutto quanto sopra citato si deve intendere che la presenza degli Ebrei in Lunigiana non fosse insignificante, e particolarmente ciò fosse importante in Lerici, ove ancora si può riconoscere la zona del Ghetto (e dove si tramanda il soprannome “Ghetin”).
Testimonianza importante dell’esistenza del Ghetto è quella di Giuseppe Bandini, fratello dell’Inquisitore a Malta, il quale, nel 1754, venuto a Lerici da Roma per imbarcarsi sulla galera diretta a Malta, scrive che “levatene le case che sono sulla piazza, il resto è un Ghetto”. Ed è proprio durante lavori di ristrutturazione di una casa del Ghetto che nel dopoguerra sono stati ritrovati i rotoli (della Torah?) che il muratore di Tellaro, conosciuto dialettalmente come “Sansonetto”, mi raccontò di aver portato al Parroco del tempo, Monsignor Costantino Faggioni, mettendoli su una cassetta da frutta che si era fatto dare dal negozio di fruttivendolo ancora oggi aperto fuori della porta del Ghetto.
Elementi aggiuntivi della presenza degli Ebrei in Lunigiana, oltre alla consolidata presenza ebraica in Luni e Nicola, sono due toponimi, uno di Sarzana (il Canale degli Ebrei) e l’altro di Veppo (Piana degli Ebrei) in Val di Vara. Significativa la loro ubicazione in prossimità di antichi confini di stato, in modo da poter espatriare facilmente in caso di persecuzioni. Tracce etnografiche della presenza ebraica sono da considerare alcuni nomi o soprannomi, quali Rabbì a Lerici o i Rebecchi in Val di Vara, l’aggettivo “sadò” (dialettalmente “credulone”) di Tellaro, il soprannome “quei de Temin” per indicare una delle famiglie, sempre in Tellaro (sadok e temem sono due perfetti termini ebraici). Nell’elenco dei cittadini lericini che giurarono fedeltà a Genova, scritti nel documento del 1562 denominato “Instrumentum Fidelitatis Illicis cum possessione” si leggono un Simon Todechus ed un Petrus Todecho, un Simon de Betel, nonché alcuni “de Benedictis”.
Una forte ed inoppugnabile testimonianza di presenza di Ebrei in Lunigiana si ha nell’atto del 1230, ottobre 3, indizione 3 del Codice Pelavicino, in cui si stipula un contratto con cui i nobili di Falcinello danno al vescovo Guglielmo alcune porzioni del castello di Falcinello in cambio della terza parte del pedaggio che si esigeva presso Sarzana. Nell’atto si vede partecipare un “Gibertinus quondam Code Iudei pro se et fratre suo Rollandino et pro sua eiusque uxore negocium eorum gerendo”. Poiché l’atto si riferisce al territorio di Falcinello, conferma quindi la validità e l’importanza del toponimo Canale degli Ebrei, che è posto proprio nelle vicinanze. Non è possibile sapere se i vari cognomi che si trovano elencati nel Codice, preceduti dal suffisso -bon-, quali i Bonapars, Bonaiuncta e Bonazuta, i Bonavita, i Bontempi, i Bonastrenna, i Bonalbergo, i Bonaccorsi e Bonacursellus, i Bonfiliolus e Bonfigli, i Bonabrocha, i Bonaveri e Bonavera, i Bonaventura, i Bonincontro e Bonencontro, i Boninsegna e Bonensigni, i Bonaiuta, i Bonfigetus, i Bonicus, i Bonavocis, i Bondiem, i Bondetuse, i Bonafesta (non i Bonacaptus) possano essere considerati relativi ad Ebrei convertiti. Di un David Polaccus filius ebrei livornesis, che risulta battezzato nel 1690, da notizia Mara Borzone alla pagina 19 del quaderno n° 13.
Una interessante ipotesi gastronomica, emersa anche in recenti giornate di studio sulla “spongata” (il dolce lunigianese la cui etimologia deriva dalla voce greca spongia – spugna), fa risalire la tradizione di questo dolce alla presenza ebraica in Lunigiana, che risale ai tempi dei Romani, quando Luni era la principale base navale del Commissariato Militare Romano per rifornire di cereali le truppe stanziate nell’Europa Centrale, essendo allora il mercato mediterraneo di granaglie in gran parte gestito da mercanti ebrei. Attraverso i passi appenninici la conoscenza della ricetta di questo dolce sarebbe arrivata al di là dell’Appennino Tosco-Emiliano e avrebbe raggiunto anche la Val d’Aosta, nell’ambito delle diramazioni degli itinerari della Via Romea e della Via Francigena, modificandosi soltanto in alcuni dettagli.
Il prof. Calzolari ha contribuito alla stesura del “quaderno del territorio” a titolo “Nel cuore di Lerici Via del Ghetto” – Edizioni Cinque Terre