A proposito del maiale.
In un “quaderno del territorio” edito nel 1989 a titolo “Elementi di gastronomia e di merceologia storica di Lunigiana”, di cui non si trova più traccia, era indicata la voce mortoriola, come anticipazione medioevale dell’insaccato che poi diverrà la celebre mortadella di Bologna. Allora l’elemento conservante doveva essere il mirto, per la evidente derivazione etimologica (mirtatum, murtatum). È logico quindi che in Lunigiana si facesse allevamento del maiale, fin dalla protostoria, perché ne fanno fede alcuni toponimi assai chiari, come il “Porcaessi” di Fabiano e l’attuale “Porcale”, derivanti dal latino porcaricius (luogo di allevamento dei maiali). Circa l’allevamento razionale del maiale da parte dei Romani fanno fede i ritrovamenti dei recinti bassi per impedire ai porcellini da latte da uscire, e permettessero invece alla madre di allattarli, rinvenuti nella villa agricola del Varignano. Più difficile ritrovarne qualche traccia a Lerici, perché il territorio del Caprione, ricchissimo di acque, anche termali, fra il 20.000 ed il 10.000 a.C. ne è poi divenuto povero. Non si può però negare che vi fosse un tipo di allevamento famigliare, di uno o due capi, che comunque permettesse di mantenere una tradizione legata a questo succulento tipo di gastronomia (a Lerici ad esempio il piatto fasei coe codeghe – riso e fasei coe codeghe, mentre ad Arcola si tramanda il piatto menestron coia codega e i fasoi). Rimane infatti ancora a Lerici il termine sanguinasso, che diviene “sangunazu” a Fosdinovo e “sangonazu” a Castelnuovo Magra (sangue di maiale, uva secca, pinoli, zucchero) detto anche sanguonazo ad Arcola, nonché il più antico brodo o birodo di derivazione latina, cioè due volte legato, che fa sì che a Lerici permangano due forme dialettali, forme che non si ritrovano nel vocabolario del Masetti relativo a paesi più caratterizzati dall’agricoltura come Sarzana, Fosdinovo, Castelnuovo Magra. Nella Media Lunigiana si ha ancora la tradizione di mangiare i fagioli bianchi col cotechino ed a Filattiera si dice che questo piatto va mangiato per il cenone dell’ultimo giorno dell’anno. Un altro elemento dialettale che riconduce al maiale è il termine skinko, voce longobarda skinkan, che ha dato origine al piatto skinki de porco, o anche skiki (si ricordi l’opera pucciniana Gianni Schicchi). Un elemento di antropologia culturale legato al maiale si trova all’interno del rudere della chiesa di San Lorenzo al Caprione, chiesa del XII secolo perfettamente orientata in equinoziale. Nella cortina di sinistra, si scorge ancora una apparecchio in ferro, infisso al muro, per la lavorazione del maiale. Nel territorio di Arcola-Pitelli si è tramandato un cognome particolare, di cui ho fatto ricerche, perché è quello della mia famiglia. Il cognome Calzolarj è riportato in una pergamena del 1333, relativamente a proprietari di terreni che si trovavano vicini all’Ospitale di San Leonardo del Frigido di Massa. Il cognome si è esteso al territorio di Arcola, suddiviso in più famiglie ed il soprannome relativo al nostro casato è “i zangati”. La zanca-zanga (termine di derivazione latina) era lo stivale alto per poter accudire i maiali, che, notoriamente, sono animali che hanno bisogno di molta acqua e si avvoltolano spesso nel fango per tenere umida la pelle. Una simile tradizione della zanca-zanga si rinviene in Corsica, ove ancora oggi i porchi selvatici vivono allo stato brado.
Occorre dirimere il dubbio che il toponimo Caprione possa avere a che fare con il maiale, perché il termine kaprion, in lingua greca, è legato al cinghiale. Una simile etimologia sarebbe stata accettata anche dalla glottologa professoressa Giulia Petracco Siccardi. Nel corso di una discussione sul ternine greco parodos = valico e sul termine spetza = baia, fatta come un piccolo scudo, ansato, ella avrebbe potuto accettare tali etimologie solo dopo aver recuperato a mare almeno un’anfora greca.
In un “quaderno del territorio” edito nel 1989 a titolo “Elementi di gastronomia e di merceologia storica di Lunigiana”, di cui non si trova più traccia, era indicata la voce mortoriola, come anticipazione medioevale dell’insaccato che poi diverrà la celebre mortadella di Bologna. Allora l’elemento conservante doveva essere il mirto, per la evidente derivazione etimologica (mirtatum, murtatum). È logico quindi che in Lunigiana si facesse allevamento del maiale, fin dalla protostoria, perché ne fanno fede alcuni toponimi assai chiari, come il “Porcaessi” di Fabiano e l’attuale “Porcale”, derivanti dal latino porcaricius (luogo di allevamento dei maiali). Circa l’allevamento razionale del maiale da parte dei Romani fanno fede i ritrovamenti dei recinti bassi per impedire ai porcellini da latte da uscire, e permettessero invece alla madre di allattarli, rinvenuti nella villa agricola del Varignano. Più difficile ritrovarne qualche traccia a Lerici, perché il territorio del Caprione, ricchissimo di acque, anche termali, fra il 20.000 ed il 10.000 a.C. ne è poi divenuto povero. Non si può però negare che vi fosse un tipo di allevamento famigliare, di uno o due capi, che comunque permettesse di mantenere una tradizione legata a questo succulento tipo di gastronomia (a Lerici ad esempio il piatto fasei coe codeghe – riso e fasei coe codeghe, mentre ad Arcola si tramanda il piatto menestron coia codega e i fasoi). Rimane infatti ancora a Lerici il termine sanguinasso, che diviene “sangunazu” a Fosdinovo e “sangonazu” a Castelnuovo Magra (sangue di maiale, uva secca, pinoli, zucchero) detto anche sanguonazo ad Arcola, nonché il più antico brodo o birodo di derivazione latina, cioè due volte legato, che fa sì che a Lerici permangano due forme dialettali, forme che non si ritrovano nel vocabolario del Masetti relativo a paesi più caratterizzati dall’agricoltura come Sarzana, Fosdinovo, Castelnuovo Magra. Nella Media Lunigiana si ha ancora la tradizione di mangiare i fagioli bianchi col cotechino ed a Filattiera si dice che questo piatto va mangiato per il cenone dell’ultimo giorno dell’anno. Un altro elemento dialettale che riconduce al maiale è il termine skinko, voce longobarda skinkan, che ha dato origine al piatto skinki de porco, o anche skiki (si ricordi l’opera pucciniana Gianni Schicchi). Un elemento di antropologia culturale legato al maiale si trova all’interno del rudere della chiesa di San Lorenzo al Caprione, chiesa del XII secolo perfettamente orientata in equinoziale. Nella cortina di sinistra, si scorge ancora una apparecchio in ferro, infisso al muro, per la lavorazione del maiale. Nel territorio di Arcola-Pitelli si è tramandato un cognome particolare, di cui ho fatto ricerche, perché è quello della mia famiglia. Il cognome Calzolarj è riportato in una pergamena del 1333, relativamente a proprietari di terreni che si trovavano vicini all’Ospitale di San Leonardo del Frigido di Massa. Il cognome si è esteso al territorio di Arcola, suddiviso in più famiglie ed il soprannome relativo al nostro casato è “i zangati”. La zanca-zanga (termine di derivazione latina) era lo stivale alto per poter accudire i maiali, che, notoriamente, sono animali che hanno bisogno di molta acqua e si avvoltolano spesso nel fango per tenere umida la pelle. Una simile tradizione della zanca-zanga si rinviene in Corsica, ove ancora oggi i porchi selvatici vivono allo stato brado.
Occorre dirimere il dubbio che il toponimo Caprione possa avere a che fare con il maiale, perché il termine kaprion, in lingua greca, è legato al cinghiale. Una simile etimologia sarebbe stata accettata anche dalla glottologa professoressa Giulia Petracco Siccardi. Nel corso di una discussione sul ternine greco parodos = valico e sul termine spetza = baia, fatta come un piccolo scudo, ansato, ella avrebbe potuto accettare tali etimologie solo dopo aver recuperato a mare almeno un’anfora greca.