Il portale di Enrico Calzolari
LA SPEZIA, LIGURIA, ITALY
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Plinio, la Val di Vara e il Parmigiano

Le fonti:
Plinio il Vecchio, naturalista (29 – 79 d.C.)  - Naturalis Historia – Libro XI – Capitolo 97 – versetto 241
Marziale (23 – 79 d.C.)  - Epigrammi - Libro 13 – XXX
Canonico Giobatta Gonetta ( ? – 1867) – Saggio Istorico descrittivo della Diocesi di Luni-Sarzana – 1867, pag. 428 - rigo 17
      
Plinio: 
“atque Liguriae confinio Luniensem magnitudine cospicuum” 
“ e al confine con la Liguria il  [formaggio] Lunense di grandezza cospicua” 

Marziale:

“caesus Etruscae signatus imaginen Lunae praestabit pueris prandia mille tuis”
“Il formaggio segnato col marchio dell’Etrusca Luni fornirà mille pranzi per i tuoi  piccoli schiavi”

Gonetta:

“Un adagio antico dicea <Olio di Barbazano, formaggio di Compiano e vino delle Cinque Terre”.

Fra le eccellenze enogastronomiche della Lunigiana il Canonico lericino Gio-Batta Gonetta riporta l’antico proverbio che indica la bontà dell’olio di oliva di Telaro (le rovine dell’antico borgo fortificato  di Barbazano sono sopra la spiaggia di Fiascherino, che ne era il porto), assieme alla bontà del   formaggio di Compiano, paese prossimo al Passo di Cento Croci (toponimo celtico da ken cruach), dalla parte del versante parmense, nonché il vino delle Cinque Terre.  Si sa che i moderni sciatori di Parma, quando spira il vento di mare, capiscono che la neve si scioglierà. Perché? Il vento umido scarica la pioggia nel versante dell’Alta  Val di Vara e, ormai secco, scende di quota riscaldandosi e favorendo così l’essicazione dei formaggi. Il fenomeno è noto nelle valli alpine con il nome di “favonio”, in tedesco Föhn o Foehn, cioè vento con caratteristiche catabatiche, cioè che si riscalda in discesa sul versante  opposto da quello in cui è arrivato.
In alcune chiacchierate con  Augusto Cesare Ambrosi, insigne studioso di Lunigiana, fatte durante il mio insegnamento all’Istituto Professionale Alberghiero di Lerici, quando venne introdotto nella didattica il rapporto Scuola/territorio, lo stesso mi chiese se fossi sicuro che il celebre adagio si riferisse proprio al paese di Compiano, in Val di Vara.  Potei così spiegare che le condizioni orografiche consentivano questa collocazione geografica. Fra i suoi dubbi esisteva anche la necessità di provare, con un documento,  se veramente i Signori di Vezzano offrissero, per tradizione, agli imperatori in transito, uno scudo pieno di datteri del golfo (Lithophaga lithophaga di Linneo  – FAO 547), sorretto dal guerriero più forte. Questo documento esiste, e si riferisce all’Imperatore Carlo IV di Boemia e Lussemburgo (1316 - 1378 ) quando nel 1355 transitò per la nostra terra. Nicoluccio  di Saladino  consorti ed eredi Bernucci si recarono a Pietrasanta con uno honorabili scuto pleno dactilis. Ne fa citazione il padre Angelo Centi nel libro “Cenni storici di Vezzano  Ligure” (1898 – ristampa 1974) alla pagina 134, rigo 18. Non si capisce perché Padre Centi  parli di datteri di Porto Venere e non di datteri di Lerici, in quanto qui la influenza genovese era totalizzante e i nobili di Vezzano fossero invece  più agevolati a contatti  sul versante di levante del golfo.   Un altro oggetto di discussione di enogastronomia con lo studioso lunigianese che dirigeva la biblioteca civica della Spezia, fu se esistesse un documento provante  che i vitigni di Vernazza delle Cinque Terre, tramite navi partite da Porto Venere,  avessero dato vita sia alla vernaccia di San Gimignano,  sia alla vernaccia di Sardegna. Ciò a prescindere  da quanto si legge  nella  novella  n° 1777 di Franco Sacchetti: “.. un cavaliere ricco e savio della città di Firenze, che ebbe nome messer Vieri de’ Bardi…per onore di sé e per vaghezza di porre nel suo  un alcuno nobile vino straniero, pensò trovare modo di far venire magliuoli da Porto Venere della vernaccia di Corniglia  (da Novelle).
Riconosciuto quindi che le condizioni geografiche dei settori esterni dei crinali della Val di Vara consentivano un buon stagionamento dei formaggi, viene immediatamente a pensare che le frasi di Plinio e di Marziale  consentano un collegamento storico con la produzione delle grandi forme di formaggio di latte vaccino già commerciate in epoca romana, e che quindi l’origine del “Parmigiano” sia da ascrivere al vento caldo del versante di Bedonia. La tradizione romana di fare grandi forme di formaggio si ritrova peraltro anche in Sardegna, ma qui si tratta di formaggi   prodotti con latte di pecora. Questi formaggi di pecora raggiungevano peraltro il porto di Lerici, come si legge nei documenti trascritti da Francesco Poggi in “Lerici e il suo castello”.  Nel 1483 una barca carica di mille forme di cacio salato arriva a Lerici. Questi formaggi erano poi oggetto di contrabbando verso la vicina Toscana, per cui nel 1487 e nel 1488  Genova emette ordinanze di divieto di esportare al di là del promontorio del Corvo sia vini, sia formaggi, sia grani.  Ancora nel 1500 arrivano a Lerici forme di formaggio sardesco, ed è interessante notare che per alcuni carichi il nolo deve essere pagato a Lerici  (nolo a carico) e per altri il nolo era già stato  pagato alla partenza (nolo pre-pagato).
Ancora più importante, per colmare lo iato temporale fra  la romanità e il moderno formaggio “Parmigiano” è però il contributo che ci vien dal “Codice Pelavicino”, la grande raccolta di oltre cinquecento pergamene che va dal 900 al 1287. Qui, relativamente al periodo che va dal 1277 al 1279 vengono presentate le gabelle del Vescovo-conte di Lunigiana, due gabelle di mare (Avenza e Ameglia)  e una gabella di terra (Caprigliola).
Fra le varie merci che transitano per dette gabelle figurano le forme di formaggio. In Ameglia e Porto di San Maurizio ogni filza di formaggio paga una gabella di due denari, mentre per ogni centinaio di filze la gabella è in natura (cioè due filze), e per cento forme di formaggio la gabella è di due forme. Simile tariffa si riscontra anche ad Avenza, con la sola differenza che per una filza si paga un denaro. Nella gabella di Santo Stefano e Caprigliola si nota la differenziazione fra il cacio messinese  e il cacio sardo. Per una filza del primo si paga un denaro, mentre per il sardo si pagano denari due.
Attraverso tutte queste notizie storiche si può ragionevolmente ipotizzare che in Lunigiana esista la tradizione del grande cacio lunense che, passando per il Medioevo,  oggi è divenuta la tradizione del pregiatissimo formaggio “Parmigiano”. Con gli scarti della lavorazione del formaggio parmigiano si nutrivano poi i maiali con cui produrre il famoso prosciutto di Parma.
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